Studio visit #4 | Luca Coclite
Guardando i tuoi lavori, un aspetto che emerge è l’interesse per i dispositivi architettonici. Che cosa significa per te questo tema e come diviene filo conduttore delle tue opere?
luca coclite
In generale, le architetture, come giustamente noti, sono preminenti nei miei lavori: fungono da cassaforti della memoria e come appuntava Ettore Sottsass, riferendosi ai “muri”, sono “previsione di rovina”. Analizzarle e rappresentarle per me è di vitale importanza. Significa aderire al meglio al contesto territoriale in cui questi dispositivi architettonici si situano, specificamente alla loro memoria e di come questa viene raccontata, abusata, distorta e ricodificata.
Mi permettono infine di raggiungere il punctum ovvero l’estetizzazione sociale della relazione tra il sensibile e il luogo in cui vivo. Questo comporta anche delle riflessioni sul concetto d’identità culturale, sull'indigeneità come contrattazione tra forme tradizionali di esistenza e crescente massificazione.
L’architettura non è presente però solo come soggetto delle tue opere, ma anche nella modalità di esposizione.
Certo. Mi capita spesso di restituire il miei lavori in spazi densi di significato e molte volte il tipo di restituzione che prediligo ha a che fare con delle installazioni ambientali. Questo deriva dalla necessità di sviluppare fisicamente lo spazio mentale, spesso costellato da immagini improvvise e appunti che organizzo in maniera diaristica.
In un secondo momento, ri-osservo il materiale con l’occhio di uno sconosciuto; da qui, attraverso l’elaborazione digitale, estrapolo, compongo e configuro il lavoro all’interno d’installazioni audio-visive che si relazionano con l'architettura ospitante. Il suono, il video, la manipolazione digitale della fotografia, sono i media che impiego per i miei lavori in un continuo connubio tra rivivificazione del passato e linguaggi contemporanei.
Qual è stato il tuo lavoro fondamentale per la costruzione della tua pratica?
Affonda le radici nei primi anni del 2000 quando per uno stage formativo mi sono ritrovato a collaborare con un’associazione promotrice di un programma di mostre ed eventi realizzati all’interno di spazi domestici dismessi, in un quartiere degradato della città di Tricase. Da lì in poi non ho mai smesso di guardare agli spazi dell’abitare come soggetti propedeutici alla mia ricerca, specie quelli che sfuggono al controllo e alla pianificazione.
A dimostrazione di quanto detto ci sono lavori come Imaginary Holidays (2014) oppure Hall (2017) accomunati da un soggetto eterotopico: le colonie estive e in particolar modo l’ex colonia Scarciglia di Santa Maria di Leuca e il Regina Pacis di San Foca. Quest'ultime, nonostante siano state costruite in epoche diverse, hanno un percorso temporale sovrapponibile, basato sulle diverse funzioni sociali che hanno svolto negli anni.
Sono passate da essere filantropiche colonie estive per bambini affetti da tubercolosi a progetti fallimentari di alberghi di lusso. Servendomi di questi inattuali dispositivi architettonici e politici, ho cercato di descrivere un territorio in preda alla viltà scaturita dall’industria turistica capace di mettere in crisi le specificità di luoghi, distorcendoli e riconducendoli a mero prodotto di consumo.
Ultimamente si parla molto di residenze, di come siano importanti per gli artisti per sviluppare le proprie ricerche senza pressioni date da finalità produttive. Raccontami una residenza che è stata importante per il tuo percorso.
Nel 2017 sono stato a New York per una residenza presso l’Experimental Intermedia, un luogo incredibile fondato alla fine degli anni 60 da Elaine Summers e attualmente gestito da Phill Niblock. Qui ho fatto base per realizzare “Solitary Gardens” una trilogia video che riprende il titolo dell’opera della fondatrice “Fantastic Gardens”.
I tre capitoli che lo compongono, in ordine cronologico: Human Botanical Garden, One day everything you see will be invisible e Anti-Souvenir ci raccontano di una realtà che da edenica diviene illusoria, dove la solitudine dei “giardini d’inverno” newyorkesi, le hall dei centri commerciali e dei centri ricettivi, l’artificiosità del Prospect Park di Brooklyn, i diorami dei musei di storia naturale e infine il decadimento degli oggetti seppelliti nella spiaggia di Dead Horse Bay, provenienti dalla case divelte e incalzate dal progressivo ammodernamento di Manhattan, formano una sorta di sommatoria tra natura e artificio.
Qui l’idea di “giardino”, come metafora dell’uomo che aspira alla perfezione e al raggiungimento della felicità, diventa il contenitore di una condizione umana solitaria e individuale, tra mondo del visibile e mondo dell’invisibile.
Vorrei concludere questa intervista parlando di te attraverso un/a altro/a artista. Chi consideri un/a maestro/a?
Un artista che sento molto vicino per i temi trattati è Dan Graham. Ammiro il suo lavoro “Homes for America”, una serie di fotografie in cui sottolinea la serialità dei prefabbricati americani degli insediamenti residenziali suburbani del Dopoguerra. Un’analisi socioculturale degli spazi abitati che più volte ritorna in ricerche corali come Casa a Mare e gettano le basi anche per studioconcreto, lo studio di ricerca che ho fondato insieme a Laura Perrone. Infine, sono sempre stato attratto dalle sue performance degli anni ’70 in cui indaga il rapporto tra osservatore e opera ma soprattutto la percezione del corpo in una complessa relazione con lo spazio.