Dress Code | Giuseppe De Mattia - LAVA PIU
Dress code | Giuseppe De Mattia
a cura di Celeste
8.04 - 14.06
LAVA PIU - TERAMO
[...] Nel corso della sua attività più che decennale, Giuseppe De Mattia torna sulle dinamiche e sulle
implicazioni del mestiere di artista - tutte efficacemente condensate nel personaggio de Il brevetto del geco - come “la necessità di vendere ad ogni costo le proprie opere, l’accusa reciproca di plagio tra gli artisti, il timore della truffa che soggiace ad ogni acquisto di arte contemporanea. Nel 2019, nella mostra “Esposizione di frutta e verdura” presso la galleria Matèria di Roma, mette in scena la parodia di un mercato ortofrutticolo come metafora della fiera d’arte, in cui frutta vera e frutta di ceramica rivelano la propria differente natura solo nei giorni successivi all’opening, con il deperimento degli ortaggi.
Nell’opera di De Mattia il mercato sembra coesistere nella duplice forma di luogo di affezione dell’infanzia trascorsa al Sud negli anni Ottanta, ma anche nella sua variante meno nobile di mercato nero. Ad esempio in Ladri di piastrelle (2022), l’installazione concepita negli spazi di OPR Gallery a Milano, in cui replica una decorazione ceramica di azulejos portoghesi, oggetto di un mercato illegale da dare in pasto ai turisti delle città iberiche, pensati per essere venduti al pubblico a un prezzo accessibile, decretando anche lo smembramento dell’opera.
In Dress code il mercato rionale funziona anche da punto di contatto essenziale dell’artista con il territorio con cui per la prima volta si trova a lavorare, Teramo. De Mattia si fa accompagnare dallə curatorə, il giorno prima dell’opening, al mercato del paese limitrofo, per acquistare capi usati da impiegare nella performance.
I vestiti devono essere necessariamente recuperati da venditori ambulanti poiché non già puliti, come quelli nuovi di negozio: i capi vengono infatti lavati-digeriti dalla lavanderia a gettoni messa in funzione dall’artista durante la performance che, subito dopo, li stira, li assembla in diversi outfit e li ripone in una busta, con tanto di cartellino. Ogni abito confezionato viene messo in vendita, così come per Ladri di piastrelle, a un prezzo economico, per ribadire il carattere anti-elitario dell’arte di De Mattia:
«Se un artista ti piace è giusto che tu possa possedere almeno una sua opera ».
Ogni vestito impacchettato è un personaggio, un costume, un ritratto, un quadro. Ogni multiplo prodotto non rientra propriamente nella categoria estetica del ready-made, poiché prevede un intervento di accurata rigenerazione dell’oggetto. Inoltre, l’operazione dell’artista non implica una defunzionalizzazione del prodotto di consumo, non ne decreta l’irreversibile ingresso nella sfera dell’arte come oggetto sollevato dalla propria funzione, perché nessuno vieta ai collezionisti di indossare gli abiti una volta acquistati. Con Dress code, De Mattia sembra rispondere affermativamente alla domanda di Morpio sul pensiero per espansione, che segue il movimento della centrifuga, per creare un’esperienza artistica potentemente aderente alle circostanze in cui si trova.
Le opere che nascono dalla performance al mercato prima e nella lavanderia poi, sono found objects processati, in cui il discrimine tra opera d’arte e bene di consumo manifesta tutta la sua fragilità e inconsistenza. L’apparentamento tra opera d’arte e merce è qui ancora più evidente. Esso è motivato non dal valore d’uso degli indumenti (per il fatto cioè di rimanere utilizzabili), ma piuttosto per il loro valore simbolico. Come evidenzia Emanuele Coccia ne Il bene delle cose, la qualità di una merce è determinata dal significato simbolico che le persone le attribuiscono, ed è tale carica significante a rendere le cose passibili di scambio .
Centrale diventa allora l’attivazione da parte dell’artista attraverso una compra-vendita a prezzi popolari, di una possibilità di relazione con un pubblico - come quello di LAVA PIU - non composto propriamente da collezionisti. Un pubblico che, attraverso l’acquisto, è messo nella condizione di riconoscere il valore dell’operazione, investendo del denaro.
L’opera, proprio come qualsiasi merce, ha valore in quanto inserita in un sistema di relazioni e di scambio. «Una comunità pura e assoluta di uomini senza le cose non è mai esistita e non esisterà mai: è nelle cose e attraverso le cose che gli uomini possono incontrarsi» .
L’umanità è sempre esistita attorno a dei beni, in luogo di un mercato di circolazione delle merci. L’opera d’arte non è estranea a questo discorso. Da un altro punto di vista, a venir meno è la mediazione tradizionale della galleria d’arte che, come solleva l’artista, spesso spinge i collezionisti a comprare non in quanto motivati dall’interesse per le opere, ma piuttosto dal prestigio delle gallerie stesse, veri e propri brand di beni di lusso. Infine, per altri versi, De Mattia non fa altro che mettere in evidenza le dinamiche proprie del commercio dei beni e, in particolare, del mercato dell’arte: l’artista, lə creativə, lə influencer, è colui o colei che prova sempre a venderti qualcosa, anche quando non lo sta esplicitamente dichiarando.
De Mattia invece lo mostra, non lo nasconde, anzi ne fa il centro della sua opera.
NON È CHE, SENZA VOLERLO, IO VOLESSI PROPRIO QVESTO? NON È CHE LA MIA ARTE,
COSÌ COM’È, CONTA NON PER LE POCHE OPERE CHE PRODUCO, MA PER QUEL CHE MI
COSTRINGE A VIVERE?
Sono le parole che Federico Morpio immagina di scolpire su una lapide. A noi viene da chiederci se invece Giuseppe De Mattia potrebbe mai creare una variante di questa domanda che suoni più o meno così:
“NON È CHE, SENZA VOLERLO, IO VOLESSI PROPRIO QUESTO? NON È CHE LA VITA, COSÌ
COM’È, CONTA PER LE OPERE CHE MI COSTRINGE A PRODURRE?”