Cosimo Calabrese | HYBRIS
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Salgemma come partner di Isola Madre, ha assegnato il suo premio al fotografo Cosimo Calabrese per il suo progetto fotografico HYBRIS, che indaga il rapporto tra uomo e colonialismo nel territorio della Basilicata. In questa breve intervista, il fotografo racconta la genesi del progetto e come la fotografia contemporanea possa creare nuovi immaginari visivi sui luoghi del Sud.
Come nasce il progetto HYBRIS che hai presentato per Artlab Eyeland, Taranto?
HYBRIS nasce nel 2017, dopo la mia esperienza come fotogiornalista nei Balcani che mi ha portato a seguire gli eventi migratori che stanno avvenendo in quelle zone. In questa esperienza mi sono sentito deluso e annoiato delle narrazioni visive che stavo producendo. Quindi ho deciso di frequentare il master Divergent Visions” sui linguaggi contemporanei della fotografia documentaria alla Door Academy di Roma.
Durante i mesi del master ho sperimentato molto, cercando comunque di mantenere un approccio documentario legato a tematiche socialmente rilevanti o attuali. HYBRIS è il mio primo progetto dove ho sperimentato approcci visivi e con forme narrative che non fossero quelle del fotogiornalismo.
La Basilicata è stato il luogo dove ho scelto di lavorare e che sento vicino non solo da un punto di vista geografico ma anche spirituale. Il territorio mi ha offerto subito molti stimoli e ho cercato di metterli insieme per convogliare in una visione coerente.
La Basilicata e la Puglia sono due regioni che sono state indagate spesso attraverso sguardi esterni che hanno costruito anche degli stereotipi visivi. Oggi sembra che molti fotografi vogliano riscoprire questi luoghi creando dei propri mondi visivi. Cosa ne pensi?
Credo che già tra gli anni ’70 e ’80 la narrazione del Sud sia cambiata radicalmente. Mi viene in mente il lavoro di Mario Cresci e anche quello di Luigi Ghirri “Puglia. Tra albe e tramonti”, che recentemente è stato riscoperto e pubblicato da MACK.
Sono state esperienza lontane, ad esempio, dall’idea visuale del gruppo dei fotografi di De Martino distanti dagli stereotipi di queste aree. Quindi penso che un distacco c’è stato da tempo e oggi si vedono molte indagini interessanti su questi posti, forse resta soltanto un certo tipo di fotogiornalismo a ribadire alcuni stereotipi.
Guidando e camminando per la zona sono stato attratto dai segni, dalle rovine e dal vuoto lasciato dagli umani nel corso dei secoli: templi greci, vecchi villaggi, oleodotti, stazioni di servizio abbandonate, fabbriche e fattorie, bizzarri parchi a tema. Le montagne, la conformazione rocciosa del terreno e il vuoto dello spazio fanno sembrare tutto alieno e alienato.
Come vedi oggi il ruolo della fotografia contemporanea per scardinare o creare nuovi immaginari verso il Meridione ? Sopratutto se adoperata da fotografi del Sud?
Ogni fotografo che vive o che indaga il Sud porta nella sua fotografia la sua idea non solo del medium fotografico ma anche della sua storia personale, del suo approccio con il reale; andando a svelare un suo immaginario sempre diverso.
Da un mio punto di vista personale credo che sia interessanti i progetti fotografici che mettono in luce tematiche sociali e che riescono ad andare oltre la narrazione di ogni giorno, andando a costruire con forza questi immaginari.
C’è ancora qualcosa che vorresti fotografare ma non hai ancora avuto occasione di farlo? Se sì, cosa?
Mi interessa indagare una mia ossessione, il modo in cui attraverso la fotografia sia possibile far emergere e rendere visibile le forme di violenza spogliandole da una patina di ipocrisia di tutti i giorni. Vorrei nel prossimo futuro, lavorare su questo concetto in maniera più ampia e organica.
Quali sono i fotografi (sud Italia e non) a cui tu guardi che ispirano il tuo lavoro?
Forse può sembrare paradossale oppure no, ma ammiro, osservo e studio sopratutto fotografi che sento molto lontani da me sia come pratica, identità che come linguaggio fotografico e che in qualche modo riescono ad attirare la mia attenzione e a muovere qualcosa dentro di me a livello irrazionale. Mi attraggono per la loro capacità di ampliare la mia percezione del mondo. Sicuramente su tutti direi, come fotografi che mi ispirano sono Takashi Homma, il britannico Paul Graham e il tedesco Michael Schmidt.
Tornando invece indietro nel tempo, com’è iniziata la tua carriera di fotografo?
Era il 2009 e non avevo idea di cosa fare nella mia vita. Sono sempre stato affascinato dagli oggetti tecnologici e ho portato in giro con me una macchina fotografica compatta digitale che usavo senza alcuna conoscenza tecnica o velleità tecnica, teorica o artistica per fotografare amici, concerti e viaggi. Fino a quando mi sono iniziato a chiedere come potesse funzionare quell’oggetto in maniera diversa fino a quel momento, e che valore e fine avessero le immagini che produceva.
Cosa è cambiato nella tua vita dall’inizio del tuo percorso fotografico a oggi?
La fotografia mi è servita come strumento di interpretazione del mondo, non solo come pratica ma anche e soprattutto come fruizione. Credo sia una di quelle cose, come la letteratura, il teatro o la musica, che ti permettono di vivere senza rischiare di impazzire.
Cosimo Calabrese ( Taranto, 1985) è un fotografo che vive e lavora a Taranto. Dopo gli studi in lettere moderne ha frequentato la D.O.O.R. Academy di Roma e ha lavorato come fotogiornalista pubblicando alcuni dei sui lavori su riviste e quotidiani in Italiame all’estero. Focus principali dei miei lavori sono le migrazioni e i problemi ecologici. Negli ultimi anni sta indagando la fotografia come mezzo espressivo personale. I suoi ultimi lavori sono “Hybris” (2018) sul rapporto tra uomo e colonialismo e “Metastasis” (2018-ongoing), una ricerca sulle conse- guenze della grande industria siderurgica sul tessuto della città di Taranto”