ContrAppunti - pensieri sparsi mentre torno a casa #01
a cura di Alessandra Costantiello
ContrAppunti è una rubrica che nasce per raccontare connessioni, stimoli e rimandi che una mostra può offrire. Nuovi spunti di riflessione in quello spazio temporale durante il ritorno a casa in cui occhi e mente elaborano quanto visto. Universi paralleli per accompagnare lo spettatore nella mostra e per proseguire attraverso questi stimoli una riflessione personale.
Io non ho mai visto un deserto, penso tra me e me mentre torno a casa dopo aver visto la mostra “Deserti” in corso nella galleria Muratcentoventidue a Bari.
Oggi è scirocco, un vento che soffia da sud-est, e stasera l'aria è stranamente calda e umida, il cielo aranciato. Al semaforo tolgo cappello e sciarpa, anche se è febbraio e siamo a metà inverno. Mentre torno a casa penso a questo vento che viene a trovarmi proprio dal deserto ed è quello che poi porterà pioggia, tra poco, forse già da stanotte.
Non scompiglia forse i tuoi capelli /Un poco dello stesso vento che spirava a Babilonia/Che soffiava su altre vite e carovane già passate/Sulla via prima di noi/Non c'è forse dentro la tua voce/L'eco di un amore atroce, l'ombra di una connessione.
—(Nabucodonosor, I cani e Baustelle)
Ripensando a questi versi mi sembra di trovare connessioni ovunque: un sottile filo che lega le cose del mondo, come questo vento che dal deserto arriva proprio qui da me e soffia sul mio viso accaldato mentre apro la porta della galleria ed entro.
Sei artiste (Shirin Abedinirad, Elisabetta Di Sopra, Julia Charlotte Richter, Eleonora Roaro, Raeda Saadeh, Sira-Zoé Schimd) esplorano lo spazio naturale e lo spazio metaforico del deserto restituendo in forma video una densità di suggestioni e istanze che questo ambiente naturale si porta con sé.

Per descrivere questi luoghi il filosofo Jean Baudrillard in “America” (1986) afferma che “il dispiegarsi del deserto è infinitamente vicino all’eternità della pellicola”,questo quanto riportato dall’artista Eleonora Roaro (Varese, 1989) in “Vanishing Point” (2019) in cui cammina all’interno di un’opera di Land Art (la “Spiral Jetty” di Robert Smithson del 1970) rimasta sott’acqua per trent’anni e che dal 2022, a causa della siccità, si è resa visibile. Il ripercorrere la lunghezza di quest’opera, porta l’artista a raggiungere un punto di fuga all’orizzonte per un tempo che sembra infinito e dilatato, quasi immobile. Questo è il tempo percepito nel deserto, dove i pochi o inesistenti punti di riferimento, provocano in noi, un senso di vertigine. Il tempo cronologico sembra appaiarsi allo spazio brullo e tutto sembra allungato, espanso.

Senza tracce (2023) di Elisabetta di Sopra è una video performance ambientata nel deserto del Wadi Rum in Giordania in cui l’artista cancella le sue impronte nella sabbia del deserto mentre cammina. In quest’epoca in cui lasciamo costantemente segni, tracce, elementi nel mondo che parlano di noi, propagazioni del nostro essere ovunque (basti pensare alla bulimia di immagini che produciamo sui social) l’idea di cancellare le tracce che i nostri passi nel deserto lasciano è davvero rivoluzionaria. Mi ha fatto pensare alla risposta che Willem Defoe ha dato ad un tiktoker che lo ha fermato per strada e non lo ha riconosciuto e alla domanda: “come vorresti essere ricordato?” l’attore ha risposto, indossando un largo sorriso: “non voglio essere ricordato”. Penso sempre che chi si occupa di arte lo faccia anche, tra le altre cose, per lasciare un segno, e invece, a Defoe, non interessa proprio niente di quello che viene dopo di lui. E a voi invece interessa? Ci sto pensando da giorni.
Uno specchio d’acqua si apre tra i granelli di sabbia e, per un attimo, viene voglia di bere quell’acqua o di specchiarcisi come narcisi in mezzo al nulla. È “Gliss” di Shirin Abedinirad un’opera disposta per terra proprio come una pozzanghera inaspettata da scansare. La resa è interessante perchè nel scombussolare la nostra percezione ci domandiamo cosa è vero e cosa no.

Mi sono appena ricordata che io il deserto l’ho visto e di acqua ce n’era eccome! Nel 2023 ero in quello che si chiama deserto di Giuda e che accoglie le sponde del fiume Giordano dove tantissimi pellegrini da ogni parte del mondo, soprattutto americani si immergevano con tuniche bianche e applausi scroscianti e violini stonati e danze. Il deserto che ho visto era un luogo di vita, di molte vite e di molta acqua e non era uno specchio, ma solo un luogo carico di simboli e di fanatici. Ho affondato la mano in quel fiume verdastro per lasciare una traccia, per dirmi di esserci stata, per non dimenticare tutto quello che avevo visto e sentito. Nel tentativo di trattenere quell'acqua ho ricordato che "tutto scorre" e che "non si può discendere in un fiume due volte". Anche io non sono più la stessa di allora, qualcosa è rimasto lì per sempre.

Proprio nelle terre che descrivo è nata l’artista Raeda Saadeh che nelle sue opere decontestualizza i paesaggi idealizzati di Israele. In “Vacuum” (2007) l’artista aspira con un aspirapolvere le colline della Palestina in un atto assurdo e forse per questo poetico. Nell’azione performativa dell’artista si scorge l’impossibilità e l’insensatezza di quello che fa e allo stesso tempo la sua resistenza che è quella di tutto il popolo palestinese. L’artista definisce l’opera: “an attempt to question how much life is given and how much taken”. Un gesto quotidiano traslato in un paesaggio diverso diventa assolutamente senza senso. L’arte riesce con la sua totale infondatezza a dire, invece, qualcosa di concreto.

Vi invitiamo a continuare il percorso della mostra: la collettiva “Deserti” è visitabile fino al 28 febbraio presso gli spazi di Muratcentoventidue - via G. Murat 122 - a Bari. Per info sugli orari e le giornate di apertura consultare i canali social e il sito ufficiale https://www.muratcentoventidue.com/
Mentre cammino divago su:
- C’è un punto sulla faccia della terra in cui due deserti (quello del Mojave e quello del Colorado) si incontrano dando vita ad un paesaggio naturale unico: il parco nazionale del Joshua Tree che prende il nome da questa singolare fioritura di cactus. Ispirata da questo scenario la band irlandese degli U2 tira fuori “The Joshua Tree” (1987) - con una magnifica cover in bianco e nero realizzata dal fotografo e regista Anton Corbijn - un album composto da canzoni che raccontano l’aridità di questo luogo fisico ma soprattutto immaginario.

- Se vi affascinano i deserti e volete saperne di più, ma soprattutto emozionarvi non potete non guardare questo film MERAVIGLIOSO: “Nostalgia della luce” (2010) di Patricio Guzmàn ambientato nel deserto di Atacama in Cile dove viene costruito il più grande telescopio del mondo. Da questo luogo lunare gli scienziati da anni osservano il cielo, mentre gli archeologi scavano il terreno per cercare tracce di popoli precolombiani e i familiari dei desaparecidos cercano tracce dei propri cari. Guardatelo, davvero.

- Un podcast per ascoltare una cosa che non potete ascoltare altrove: i suoni di un deserto in Mauritania.
- Un libro: Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati (1940) ambientato proprio in un deserto che diventa scenario perfetto per raccontare l’attesa del protagonista che si aspetta che accada qualcosa (l’invasione di questo strano popolo dei Tartari) e sembra invece non accadere mai nulla. Sovrapposizione del tempo cronologico kronos e del tempo personale kairòs.
Sono arrivata a casa. Alla prossima mostra, ciao!