di Francesca Schinzani in dialogo con Gaetano Palermo / in-corpora #2

Intro

Il labirinto è lo spazio onirico dell’immaginazione romantica, intrinsecamente tormentata. La cultura pop ha esasperato il potenziale figurativo del labirinto, trasformandolo in scenografia preferenziale di storie d’amore.

Ispirandosi alle raffigurazioni pittoriche della tradizione romantica, Karen Kilimnik riproduce i simboli ottocenteschi come strategia di riflessione critica contemporanea. L’artista indaga le corrispondenze tra la tradizione sublime romantica e i codici mainstream tramite linguaggi multidisciplinari che intersecano disegno, installazione e fotografia. Swan Lake (1992) è una serie di collage dedicata al balletto classico. Tra i boschi addomesticati di antiche ville nobiliari compaiono le sagome bidimensionali di ballerine con tutù di colori pastello. Questi figurine fatate, abbandonate sulle rive solitarie di laghi artificiali, sprigionano una sensazione confusa, di surreale malinconia.

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Karen Kilimnik | Kitri and friends at the garden folly, 2004 | Laserkopie, Glitter, säurefreier Klebstoff / Laser | copy, glitter, archival glue | Set von 13 Collagen, je 32.4 x 27.9 cm / Set of 13 | collages, each 12 3/4 x 11 inches | Courtesy die Künstlerin / the artist, Galerie Eva Presenhuber, Zurich / New York / Vienna, und / and Sprüth Magers Berlin / London / Los Angeles | Foto / Photo: Jochen Arentzen

Parte prima: caduta

Tutti sanno che il loro destino collega ciò che esso ha di più stranamente eccitante alla caduta inopportuna. Questa caduta è per tutti loro come una riluttante divinità che li affascina e che adorano incondizionatamente. Le parole di Georges Bataille in Il limite dell’utile conferiscono un’aura magica alla caduta. La caduta racchiude un segreto, un eccitamento che si disvela soltanto nel momento in cui il corpo esperisce il fallimento.

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Swan (2023) di Gaetano Palermo. Ph Andrea Avezzù

Ogni ripetizione è già caduta e poiché ogni caduta ci espone al rischio o all’eventualità dell’urto con corpi altri, ogni caduta è sempre inopportuna, come inopportuno è il moto stranamente eccitante della vita, per usare le parole di Bataille. Questa inopportunità risiede nel tradimento che è insito in ogni deviazione: conatus sese conservandi diceva Spinoza, la vita è mossa da un apparente moto di conservazione, destinato però sempre - per eccitazione - a fallire (cfr. inglese to fall).

La caduta si definisce come azione estremamente fisica e materica: sui corpi si stratificano i resti del cadere. Il sangue si cristallizza in piccole croste che, nel rattoppare una ferita, denunciano l’inesorabile presenza. Del gesto di cadere, l’impatto definitivo rappresenta la fine. È il breve istante del volo a racchiudere l’evanescenza. In Swan (2023), una performance ideata da Gaetano Palermo e interpretata da Rita Di Leo, la caduta si manifesta come un loop coreografico.

La ripetizione è per me la principale forma della vita, tutto ciò che esiste ripete se stesso in una serie infinita di variazioni su tema. In questo senso mi piace dare un’interpretazione coreografica dell’ontologia classica a partire dalla nozione di movimento, che intendo come modo della cosa in sé, modo dei corpi come aggregati organici o inorganici della materia. Ogni corpo tende a permanere e a conservarsi o riprodursi attraverso una ripetizione di sé e del proprio stato. Questa ripetizione però non dà mai origine a delle copie tout court in quanto ogni corpo è prossimo ad altri corpi ed è destinato quindi all’incontro e allo scontro, da cui avranno origine nuovi corpi.

Il titolo della performance si ispira a La Morte del Cigno di Michel Fokine, tra gli assoli più iconici della storia del balletto classico, ma si libera del concetto di morte. Anzi, esaspera la possibilità di morire.

Sebbene sia un progetto coreografico e drammaturgico impregnato di interessanti tracce teoriche e iconografiche, Swan per 30 minuti presenta la stessa azione: un giovane donna sui pattini a rotelle, intenta a scattarsi dei selfie, cade. E ride. E poi ricomincia. La caduta - in senso più immaginifico, la morte - non sancisce la fine ma attiva una reiterazione ossessiva.

È nel momento in cui la caduta genera la piega attraverso l’urto e lo scontro che il corpo si libera della propria coazione, perdendo vita e al contempo acquisendone di nuova.

Il più delle volte la perdita, la degradazione subita non fanno ridere colui che cade: egli non ne trae alcun beneficio, scrive Bataille. In Swan accade il contrario: la maschera di silicone che indossa la performer emana un’indifferenza per-niente-umana. Come un filtro emotivo ed emozionale, la maschera ingabbia qualsiasi possibile smorfia di dolore. Le risate fragorose, intrecciate ai suoni di spari che costellano il tempo della performance, non contagiano gli spettatori, anzi generano un’atmosfera cupa. Uno stato di allerta collettivo.

La caduta non solo si verifica in relazione ad uno spettatore ma in esso si sostanzia. L’occhio che guarda è la pietra di inciampo di questo agone, il corpo altro contro cui si staglia, in caduta libera, la performer. A differenza di quanto descritto da Bataille però, il moto di questa caduta, fa ridere colui, o colei in questo caso, che cade. Il riso è proprio l’attestazione di questa piega: preannuncia la morte confondendo il confine tra tragedia e farsa.

La maschera si fa vessillo dell’impersonalità, esalta la natura collettiva di un tragedia e farsa individuale. Sottraendo alla vista l’effetto doloroso che ogni caduta produce sul volto di chi cade, la maschera palesa la distanza spettatoriale davanti al dolore degli altri. Il disvelamento finale è una rivelazione ambigua. Inquietante e divertente. Lenitiva.

La risata è quì attestazione dell’ineluttabilità di questa fine e al contempo denuncia dell’assurdità dello sguardo altrui, che si ritrova a godere impotente della degradazione subita innanzi, che seppur prossima, si fa distante attraverso la finzione. E’ allora attraverso la prossimità di questo sguardo che la caduta reiterata del cigno mette in luce la natura finzionale e autoassolutoria della distanza.

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Swan (2023) di Gaetano Palermo. Ph Andrea Avezzù

Intermezzo: accumulo

La caduta rappresenta un gesto quasi sacro perché si sottrae alla logica della misurazione dell’utile. Come un inciampo tattile che sfrega le superfici epidermiche, e sfregandole le consuma. Swan introduce lo strumento della misurazione nella caduta. Nessuno saprebbe dire quante volte è caduta la performer. Nessuno è spontaneamente portato a enumerare la caduta. 

La vita è vita quando è possibile un di più che eccede il limite dell’utile, creando un utile inutile, una forma positiva di sovrabbondanza. Nell’orizzonte di questa analisi, la sovrabbondanza si realizza specificamente nella piega, nella caduta. Come un liquido che straborda il proprio contenitore. È questa piega, questa sovrabbondanza che, attraverso la ripetizione, libera il corpo dalla ripetizione stessa, annullando il moto originario e al contempo rendendolo visibile.  

Fuga (2025) insiste sul’accumulo come dispositivo di sedazione di massa. Ispirata a un lifestyle da social network, la performance di Gaetano Palermo e Michele Petrosino, e con Michele Petrosino replica il flusso lineare tipico dell'allenamento: inizio (stretching) - svolgimento (corsa) - fine (defaticamento).

Una domanda: a quale benessere si accede dopo aver esperito questi allenamente estenuanti?

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Fuga (2025), di Gaetano Palermo e Michele Petrosino. Ph Samuel Cimma

Parte seconda: sovrabbondanza

La voce anonima chiamata a interpretare uno spot pubblicitario qualsiasi ripete “lo faccio per la gloria". Poi la performance si conclude con una marcia funebre barocca che detta il ritmo della camminata di defaticamento.  

La sovrabbondanza virtuosistica della musica barocca è comunemente associata alla meraviglia. Fuga crea una frizione all’interno di questo immaginario. La scenografia è rappresentata dal corpo stesso del performer che, indossando abiti tecnici e cuffie senza filo, replica una sessione di allenamento. La distorsione del reale, che Swan in qualche modo suggeriva e tematizzava, diviene ancora più effimera.

I miei lavori sono la manifestazione diretta del mio reale, dei nodi stretti in cui mi sento incastrato e da cui non necessariamente ho voglia di uscire. Non cerco spazio per un’assoluzione. Cerco solo la riproduzione, nel senso stretto del termine: voglio fare copia carbone del reale, usarlo come ready made di autorappresentazione, confidando che dal tentativo di questa ripetizione occorrerà un clinamen e si genererà l’errore. In questo senso anche la mia pulsione creativa non è che semplice coazione a ripetere. Quello che è interessante è lo scarto, la deviazione che volontariamente o involontariamente se ne produce.

La ricerca dell’errore è una metodologia anti-capitalista. Il regime di performatività perenne a cui sono sottoposti i corpi insiste sul perfezionamento di dispositivi che riducono l’errore quanto più vicino allo zero. In un orizzonte turbo capitalista, ogni errore genera una frana temporale che rallenta la produzione. Considerando il tempo come risorsa primaria del sistema di governo egemonico, le ore del riposo o dello svago devono essere ricondotte alla stessa dinamica di accumulo di plusvalore. Di fatto, il divieto dei “piacere improduttivi” ha causato la proliferazione di numerose forme di “piaceri segretamente produttivi” inscritti in un ipotetico tempo libero che non è più possibile riconoscere per opposizione rispetto al tempo del lavoro.

Il corpo, oggi, è oggetto elettivo di occupazione e sfruttamento del capitale. Viviamo in un regime di performatività diffusa che inscrive i corpi in una logica di massimizzazione, visibilità e utilità costante, che attivamente estrae valore dalle attività più impensabili. Se nel capitalismo classico però le dinamiche di appropriazione dei beni e della forza lavoro erano esplicite, il capitalismo contemporaneo è più subdolo in quanto parassita desideri, pulsioni e moti naturali nell’essere umano - primo tra tutti quello per il piacere - e agisce non per opposizione, o rimozione del piacere, ma attraverso una sua semplice canalizzazione in strutture e dispositivi capaci di riconvertirne l’energia in utile economico. 

Fuga, come Swan, sprigiona il suo lato più oscuro nella costrizione dello sguardo dello spettatore. L’avanzamento lento e inesorabile del training solleva dubbi sull’autenticità delle promesse di benessere, veicolate attraverso specifiche campagne di marketing. Attraverso codici visivi mutuati dall’immaginario mainstream della pubblicità, la performance esalta le contraddizioni profonde che attraversano il capitalismo. In un’epoca in cui il sistema economico dominante assume forme mutevoli, Fuga svela la forza coercitiva che si annida nelle abitudini e nei luoghi associati al piacere e al divertimento.

In maniera provocatoria potremmo dire che il capitalismo contemporaneo ha trovato nel corpo umano una fonte di energia rinnovabile. Nonostante le energie umane del desiderio e del piacere siano potenzialmente rinnovabili, resta una matrice profondamente estrattivista nel capitale, seppur apparentemente invisibile, in quanto la materia prima di questa coercizione - le energie psichiche e fisiche dei corpi - non è infinita. 

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Swan (2023) di Gaetano Palermo. Ph Andrea Avezzù

Epilogo: solitudine

Nel tempo stesso in cui i principi utilitari dell’industria distruggevano l’economia gloriosa, l’individuo divenne la nuova ragione di gloria, ancora Bataille. Swan e Fuga celebrano la solitudine dei corpi. Monumenti effimeri di cui si intravedono le prime tracce di decadimento e degradazione, i corpi dei performer appaiono come relitti dalle sembianze umane, dimenticati in uno spazio di esposizione e indifferenza collettiva.

Swan si colloca nello spazio aperto della strada, della piazza, richiede l’inciampo dello spettatore e si presta all’incontro, anche quello involontario. È un lavoro di solitudine esposta. Anzi potremmo dire che è un'esposizione pubblica, urbana, di solitudine. Fuga invece convoca una quarta parete, si installa in una dimensione quasi cinematografica. 

Abbandonati in questi spazi, i performer si rivelano come antieroi contemporanei.

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Fuga (2025), di Gaetano Palermo e Michele Petrosino. Ph Samuel Cimma

SWAN

2023

di Gaetano Palermo

con Rita Di Leo

sound design Luca Gallio

consulenza artistica Michele Petrosino

costumi Gaetano Palermo

prosthetics Crea Fx

produzione La Biennale di Venezia

amministrazione KLm - Kinkaleri, Le Supplici, mk

con il supporto di Casa della Cultura Italo Calvino; h(abita)t – Rete di spazi per la

danza; Associazione QB Quanto Basta

FUGA

2025 - ongoing/in corso

di Gaetano Palermo, Michele Petrosino

con Michele Petrosino

sound design Filippo Lilli

produzione KLm

con il supporto di Residance 2025/Network Anticorpi XL - Santarcangelo Festival, Kilowatt Festival, Teatro Akropolis Genova, Circuito CLAPS Lombardia; Playtime/Spaziomensa/369 Gradi; I Fumi della Fornace-Rassegna Incolta/Congerie

Gaetano Palermo (Catania 1998) è artista e coreografo con base a Bologna. La sua ricerca indaga l’ontologia della performance al confine tra realtà e finzione, attraverso la lente del movimento e della stasi. Ha studiato filosofia a Bologna e arti performative all’Università Iuav di Venezia. Come performer ha lavorato per artisti internazionali come Bruce Nauman e Romeo Castellucci. Dal 2023 collabora con l’artista Michele Petrosino. Il suo lavoro è stato sostenuto e presentato da enti come La Biennale di Venezia, Triennale Milano, MAMbo Bologna, Teatro Regio di Parma, Fondazione I Teatri di Reggio-Emilia, Santarcangelo Festival, Gender Bender Festival, Kilowatt Festival, Danza Urbana, Ammutinamenti Festival.
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