Oltre la lettura dell'articolo, ascolta la conversazione con Leonardo Caffo di Giuseppe Amedeo Arnesano per la rubrica di AUDITORIUM, un archivio sonoro e testuale che indaga l’incontro delle pratiche curatoriali con le dinamiche interdisciplinari della società contemporanea. Spazio simbolico di incontro e confronto che accoglie una pluralità di pensieri, parole, voci e azioni. AUDITORIUM è una rubrica a cura di Giuseppe Arnesano per il magazine di Salgemma.
AUDITORIUM #3 | Parte prima
AUDITORIUM #3 | Parte seconda

Iniziamo dall’arte, quella contemporanea. Sei stato curatore del Public Program 2020 della Triennale di Milano e ora, come filosofo, sei in residenza presso il Castello di Rivoli Museo. Qual è il tuo approccio in questo percorso e in che modo la filosofia ha incontrato l’arte nella tua formazione?

Sono un ricercatore che viene dalla filosofia e che sperimenta, come oggi è abbastanza prassi, anche con altre metodologie, senza mai sostituirsi ai professionisti del settore. Anche se questa è una tendenza molto frequente ma che io non amo. Per cui se il curatore è colui che si è formato in storia dell’arte contemporanea io posso non avere questa definizione, e la cosa non mi rattrista più di tanto. 

Se il curatore significa manovrare oggetti, eventi, opere di design eccetera all’interno di contesti specifici quali che sia il campo di provenienza, come d’altronde sono sempre stati i curatori, perché ne Harald Szeemann ne Hans Ulrich Obrist sono laureati in storia dell’arte, ma neanche Carolyn Chistov- Bakargiev che è laureata in filologia classica, quindi fare della curatela semplicemente un possesso di titolo, potrebbe distruggerla dall’interno. 

In Triennale il progetto era quello di integrarsi nella dimensione di mostre attraverso la curatela di eventi, progetti speciali, programmi e riviste. Nello specifico il mio obiettivo è stato quello di lavorare per la lectio magistralis di Gianni Vattimo. Durante il covid abbiamo fatto un lungo programma che si chiamava Triennale stories dove abbiamo realizzato la prima maratona del Decameron e anche lì l’obiettivo era mostrare quanto la parola sia centrale nella dimensione della contemporaneità, nonostante abbiamo cercato di rimuoverla a vantaggio dell’immagine. Nello stesso periodo ho partecipato alla costituzione della mostra su Enzo Mari, poi di lì a poco ho ricevuto la proposta di Chistov- Bakargiev per il Castello di Rivoli

In quell’occasione abbiamo presentato questa posizione, quella del filosofo, che esiste già in altri musei come per esempio faceva nello stesso momento Paul B. Preciado al Centre Pompidou di Parigi. L’idea era quella di adattare la ricerca filosofica con quella artistica e contemporanea del Castello di Rivoli. In quel caso abbiamo fatto anche una serie di podcast intitolati La scomparsa del pubblico e L’arte cura, insieme alla realizzazione di un libro con SKIRA che uscirà a Gennaio 2023 e che si chiama New Public, si stratta di un lavoro di interazione tra filosofia e arte contemporanea.

Il mio approccio all’arte e a qualsiasi tipo di altra cosa che a me interessa è lavorare con oggetti, eventi e parole per argomentare qualche forma espressiva di tesi. Oggi, credo che il mondo della curatela contemporanea si divida in due macro settori. Il mondo dei curatori puri, che provengono dalla storia dell’arte o che in qualche mondo hanno una competenza di storia dell’arte filologica, e loro sono veramente la parte più importante di questo mondo come per esempio: Marianna Vecellio, Marcella Beccaria e Caterina Molteni, ma potremmo fare un elenco enorme di persone così. La stessa Cecilia Alemani che ha curato l’ultima biennale che è esattamente espressione di questo genere di curatela.

Poi ci sono i curatori e le curatrici che vengono da altre discipline umanistico- creative e che lavorano nella curatela in modo ampio e disordinato come direzione artistica, festival, ricerche, progetti speciali e relazione tra le opere, parole e suoni di cui in parte sono dentro anche io. Questo non è inteso come un lavoro sostitutivo a quello dei curatori puri, però credo che in questo momento storico non mi stupisce tanto vedere, nei curatori non puri, come Luca Lo Pinto realizzare un museo umano reinventato come rivista ed è giusto così, perché il museo può anche essere reinventato. 

Oggi quello che sfugge è che il museo viene interpretato come un luogo in cui fare ricerca con delle potenzialità espressive dall’Università, che sono luoghi in cui si fa ricerca in outcome, che alla fine può essere una mostra, un libro o un public programs, ma in questo momento storico devo dire che la forma finale è la cosa meno interessante.

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Biennale Arte 2022 - Latte dei sogni, Padiglione Italia - Ph. Irene Fanizza

Ma, questo è sempre un valore aggiunto rispetto alla concezione museale classica di dieci anni fa. 

Si, sono d’accordo con te, comunque il dibattito sulla museologia è in corso e se ne sta parlando moltissimo. Penso che Carolyn è uno dei geni della curatela contemporanea, come per esempio anche l’idea di avere dei filosofi come parte di un organigramma di un museo è proprio perché c’è la necessità di capire quanto un museo possa essere grande e quante cose possa ospitare. Come per esempio ospitare un centro di ricerca proprio, complementare, sostitutiva o di gemmazione come quello delle Università, e per questo l’Italia è un Paese molto strano perché, mentre all’estero si fa ricerca attraverso molti organismi come Musei, CNR, Università e archivi, mentre da noi di fatto la ricerca si fa solo nelle Università. 

Addirittura le Accademie di Belle Arti non sono considerate luoghi di ricerca, e questo è dimostrato dal fatto che siamo l’unico Paese in Europa dove nelle Accademie di arte non è presente il PHD. La soluzione è stata quella di inventare della para Accademie che sono poi diventate delle Università come la IULM per esempio, perché non si poteva fare ricerca nelle Accademie come Brera, una della Accademie di Belle Arti più importanti del mondo.

Quindi in realtà reinventare il museo, così come ha fatto Rivoli, MaMBo e GAMEC vuol dire che ci devono essere delle agevolazioni e che il MIUR deve prendere in considerazione i musei e le accademie, perché è una considerazione vetusta quella che la ricerca si faccia soltanto in Università pubblicando di paper che non leggerà mai nessuno. Il mio approccio al museo è un approccio contestuale, ma io credo che oggi si possa fare ricerca praticamente ovunque. 

L’altra cosa importante è forse questa, ovvero che cosa significhi oggi fare ricerca. Se fare ricerca nel mondo delle arti umanistiche significa produrre dei risultati non immediatamente misurabili, e questo che ha ucciso molta metodologia della ricerca umanistica, ecco perché non riusciamo a dire chi in particolare ha rivoluzionato il mondo della filosofia negli ultimi 40 anni, e questo perché la omogeneità della forma non è in grado di misurare l’innovazione. 

Scompigliare le carte è una cosa abbastanza interessante, alla fine per me non è importante il media, o per lo meno un media vale l’altro perché stai comunque scrivendo.

Hai creato Waiting Posthuman Studio, raccontaci come nasce il progetto e quali sono gli attuali contributi ai quali state lavorando. 

Questo è un progetto chiuso ora. Ha avuto sia un inizio che una fine ed è stato un progetto molto importante. È stato, e questo non gli dà nessun merito se non quello temporale, la prima agenzie creative in cui un filosofo, un artista, un curatore, uno scrittore e via dicendo si sono messi insieme per ragionare sotto l’egida del post umanesimo e della decostruzione dell’identità nelle arti contemporanee, con un progetto di ricerca che aveva come punto di partenza dei libri, tra i quali anche il mio libro che si chiama Fragile umanità, un libro sulla mia idea di post umanesimo.

L’architetto che lavorava con me, Azzurra Muzzonigro, organizzava un corso di ricerca con Stefano Boeri che si chiamava Milano Animal City, e quelli erano gli anni in cui Boeri si occupava del non umano nelle architetture e nel design, c’era un’artista Laura Cionci che lavorava in Sud America sul ruolo della magia e queste sono tutte cose che poi oggi abbiamo ritrovato, pensiamo al Latte dei sogni della Biennale.

Questa era una piattaforma fluida che curava mostre, realizzava opere, mobili, cosi come abbiamo realizzato una grande mostra a Casa Cavazzini, poi siamo stati in mostra nei musei ad insegnare come corpo curatoriale a Bogotá durante l’occupazione del Museo nel 2016. Era anche un progetto che prendeva sul serio le tematiche queer e non era un progetto mio, ma era un progetto di un collettivo; e oggi che Documenta è curata da un collettivo mi sembra che tutte queste cose erano nell’aria e che in quel momento avevamo intercettato. Ho sempre avuto sia un ruolo istituzionale come insegnante, e un altro molto più ampio di sperimentazione.

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Biennale Arte 2022, Latte dei sogni, Padiglione Italia - Ph. Irene Fanizza

Sulla 59° Biennale e sul Padiglione Italia abbiamo visto, letto e sentito di tutto. Personalmente, che idea ti sei fatta?

Io ne ho scritto sia sul foglio di sala, quello del Giornale dell’arte che c’era lì nel paglione, sia sempre per lo stesso giornale ho scritto una piccola riflessione generale su questa biennale di rara perfezione. Allestita divinamente dai forma fantasma, e di grande esperienza per la selezione di opere volute della storica dell’arte Alemani. La Biennale non mi è piaciuta.

È inutile e per nulla ancorata ai temi che dobbiamo ancora affrontare e per altro con il paradosso che l’Alemani l’ha presentate dicendo che si sarebbe occupata di questi temi, ma non c’erano questi temi e in più le ricuciture storiche in cui il mondo sta crollando, non so se sono così urgenti. L’ho trovata ancorata a delle tematiche scolastiche, più preoccupata di far vedere una bellezza estetica, la mostra non era sperimentale per niente.

Il Padiglione Italia con Eugenio Viola, che è un curatore che mi piace enormemente, Tosatti è un arista che per la maggior parte riceve delle critiche per invida. Io ho seguito molto il suo lavoro, mi dispiace ma questo Padiglione è stato un inutile sperpero di denaro, di cui non resterà assolutamente nulla ed è molto complicato che in questo momento storico, si possano spendere tutti questi quattrini per fare queste iper installazioni che non sono ancorate alla realtà.

In più trovo strano che in un momento in cui si critica il patriarcato l’eteronormatività venga scelto un solo artista rappresentativo del momento italiano e per di più che arriva da una condizione molto privilegiata. Non è stata una biennale molto interessante questa. Questa è stata una biennale completamente inutile come lo sono la maggior parte di cose che hanno fatto dopo il covid.

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Raphaela Vogel -Können und Müssen (Ability and Necessity),
2022 Polyurethane elastomer, steel, brass, anatomical model, Galerie Gregor Staiger, Zurich;
Institut furAuslandsbeziehungen – ifa.
Foto Roberto Marossi - Courtesy La Biennale di Venezia

Infatti, dopo tutte le premesse fatte durante il covid oggi, in questi tutti i campi, resta poco o nulla. Come riusciremo a salvaguardare quelle intenzioni positive pensate durante la pandemia?

Credo che comunque vada, proprio come specie, agiremo sempre in maniera emergenziale. Quando il problema c’è si risolve. Lo stupore mi viene negli ambiti di sperimentazione come l’arte dove, appena finito il dramma, nessuno si vergogna più di viaggiare da un continente all’altro con l’aereo per farsi il selfie a Basilea, Kassel, e Venezia. Non si capisce bene per quale ragione un sistema che ci fatto vedere benissimo che poteva essere riformato, in un’unica grande concentrazione di forze non è stato fatto. È sbagliato quello che abbiamo visto, l’emergenza non è stata nemmeno superata in questo momento, semplicemente si è messa in pausa. 

Non credo ci siano dei modi pratici con cui possiamo recuperare tutti quei buoni propositi che avevamo. Non sono per nulla ottimista per questa cosa qui. Un’altra cosa che mi stupisce è che i temi non siano cosi veramente emergenti, per me è stucchevole che abbiamo fatto un’intera Biennale su di un solo libro come il Latte dei sogni del 2022, presentandola come una cosa innovativa e rivoluzionaria, per non parlare delle tematiche come la magia e la condizione femminile nel surrealismo.

Dovremmo parlare dello scollegamento di internet, ci sono tante tematiche molto più pensanti e pressanti in questo momento che l’arte contemporanea si dovrebbe occupare di analizzare, ma questo non avviene. Vedremo cosa succede perché questa pausa è complessa, la gente non accetta più le condizioni di prima e dei vecchi sistemi. 

3. Geumhyung-Jeong-Toy-Prototype-2021.-Installation-view-National-Museum-of-Modern-and-Contemporary-Art-Korea.-Photo-Kanghyuk-Lee.-©-Geumhyung-Jeong
Geumhyung Jeong - Toy Prototype, 2021. Installation view, National Museum of Modern and Contemporary Art, Korea. Photo Kanghyuk Lee. -Courtesy Geumhyung Jeong

Dopo l’azionismo viennese e i drammi del passato e del presente siamo consapevoli di un immaginario visivo di carattere violento ed esplicito. Oggi l’arte ha ancora quella forza di sorprendere, scioccare e far riflettere lo spettatore attraverso un gusto espressivo viscerale? 

L’arte ha questa forza, come sempre bisogna distinguere l’arte dal sistema dell’arte. Il sistema dell’arte è da una parte comunque un luogo meraviglioso, per cui i musei, le residenze, le accademie e le riviste costituiscono un luogo di grande possibilità. Dall’altro lato invece, essendo un sistema concatenato a tutti gli altri sistemi che lo rendono possibile, ed è evidente che all’interno del sistema dell’arte, con le leggi del sistema, questa riforma è più complessa da fare. Così il sistema dell’arte rischia di essere diventato uno dei tanti sistemi di intrattenimento. 

L’arte in questo momento ha bisogno di nuove narrazioni che diano l’orizzonte della ragione, per cui non è lì per osservare o certificare l’ovvietà, ma per aprire e anticipare scenari anche complicati che con altre forme simboliche sono difficili da analizzare. Queste forme simboliche che l’arte deve andare a situare possono essere non così cool, non così comode per il sistema dell’arte.

Le domande che ci dobbiamo fare in questo momento non riguardano purtroppo la shoah, il politically correct, né la green economy che sono tutte cose già vecchie e utilizzate come meccanismi di copertura. Noi dovremmo capire cosa vuol dire vivere senza lavoro in questo momento, e nessuno si occupa più di questo argomento, vedo pochissimi artisti che si occupano dello scollegamento da internet e del peso ecologico del web, mentre vedo molti artisti che si occupano di digital art che già era vecchia quando la faceva Philippe Parreno, figuriamoci adesso nel 2022. 

Dovremmo avere molti artisti che parlano del futuro del cibo e della migrazione. Mentre ora è tutta una bolla di graphic design e altre manifestazioni molto simili tra loro. Se io avessi la possibilità di fare una biennale, non cercherei gli artisti del momento, ma farei una ricerca più nel sottobosco delle cose. 

NFT e arte. In un recente articolo comparso su Il giornale dell’arte leggiamo di un "calo del valore di alcuni Nft". In questa ondata di innovazione di forme sociali e tecnologiche legate all’opera d’arte quale futuro dobbiamo aspettarci in termini di valori formali, culturali ed espressivi?

NFT ha una funzione legata soprattutto a una speculazione finanziaria, investimento economico e di denaro più che ovvia. Ha una funzione nell’arte già abbastanza discussa tra gli operatori del settore, che è quella che riguarda -il che cosa è un’opera d’arte- e questo equivale al suo contratto dicevamo una volta, oggi diremmo che equivale al suo cod. Cosa significa possedere un’opera, possedere l’aura, o il cod, insomma tutte queste questioni che già nell’arte concettuale erano belle che macinate, qui diventano lapalissiana, quindi mandano in cortocircuito le ragioni della proprietà, del possesso, della forma e quindi sono anche polemiste. 

In realtà credo che il futuro sia molto più analogico di quello che pensiamo, noi siamo dentro una bolla che salendo verso l’alto rischia di schiantarsi in meta verso, nft e a un certo punto si arriverà a saturazione sia ecologica che cognitiva e noi avremo un grandissimo ritorno dell’analogico, della carta e delle opere tradizionali. Secondo me solo una questione di tempo, ma avverrà. Solo che il futuro è sempre più simile al passato, di quello che ci aspettiamo.

Come leggi le grandi difficoltà della stampa e del cartaceo in questi tempi?

Noi ora stiamo vivendo l’onda d’urto del cono del successo di internet, che è uno strumento relativamente giovane. Fra dieci anni internet sarà molto in crisi e tra venti scomparirà un po’ perché ecologicamente è insostenibile e un po’ perché la gente vive in un burn-out digitale enorme, e oggi la gente ha voglia di tornare alla vita. Questo non significa che io sia contro la tecnologia, sicuramente è utilissima per fare molte cose, ma qui il punto è più sottile.

Quando sei dentro un sistema ti sembra che non finirà mai e che andrà soltanto a crescere. Non ci dobbiamo dimenticare che come è caduto l’impero romano, figuriamoci se non può cadere l’impero del digitale. Noi viviamo già un grande ritorno all’analogico e lo registriamo con la passione per gli oggetti.

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Leonardo Caffo - Filosofo in Residenza presso il Castello di Rivoli, 2021

Leonardo Caffo (Catania, 1988) è un filosofo, scrittore e curatore il cui lavoro è incentrato sullo studio sugli “animali umani”, sulla postumanità, l’arte, architettura contemporanea e l’identità. Attualmente filosofo in residenza presso il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e professore di Estetica dei media e della moda alla NABA di Milano. Ha curato il Public Program alla Triennale di Milano nel 2020, e insegnato Filosofia Teoretica al Politecnico di Torino. Scrive per il Corriere della Sera.
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