Gesture Objects. Sul trovare e lasciare tracce è il titolo della mostra personale di Tanja Hamester, inaugurata lo scorso 4 febbraio negli spazi di VOGA a Bari.
Tanja Hamester – come si legge dal comunicato della mostra - “propone una strategia dal basso su cui lavora da anni, un insieme di tattiche volte a non cadere nella rappresentazione stereotipata di un luogo. I gesture objects sono gli elementi fondamentali di questa strategia artistica: questi oggetti costituiscono i reperti di una archeologia personale e collettiva.”
La mostra si compone di due momenti precedenti all’esposizione, condivisi e partecipati come il workshop dal titolo ‘Massa’, svolto invitando 10 partecipanti a realizzare appunto la massa di pasta sale che ha costituito il materiale-display di tutto il processo-mostra.
Durante il workshop, Tanja Hamester “ha offerto una lecture performance incentrata sul momento storico della transizione al primo capitalismo moderno, e sui cambiamenti che questo ha portato nella situazione di vita delle donne. Infatti, lo spostamento del lavoro riproduttivo femminile in una dimensione esclusivamente privata, ha prodotto un progressivo isolamento delle donne e depotenziato situazioni di emancipazione ed empowerment che prima trovavano spazio nel lavoro condiviso”, inserendo nel contesto teorie femministe a cui l’artista fa riferimento nella sua ricerca artistica.
L’archivio composto da impronte e tracce, visibile in mostra, costituisce questo sensibile svelamento del “lavoro nascosto” come il lavoro di cura delle donne, usando i gesture objects per parlare di una cultura di oppressione sistemica e incidente per l’artista anche con l’idea dell’artista genio: l’impronta non è considerata ‘opera autonoma’, perché è copia di qualcosa già esistente. Da qui nasce la volontà quindi di non creare qualcosa totalmente da sé (legata alla narrazione del genio artista-maschio) ma di ripetere e di creare una narrazione dagli oggetti già esistenti.
Il secondo momento condiviso si è realizzato con la richiesta dell’artista di ricevere in dono oggetti da amic* e artist* conosciut* a Bari – hanno contribuito Angela Capotorto, Pamela Diamante, Natalija Dimitrijević, Silvestro Lacertosa e Mariarosa Pappalettera – oggetti che rappresentano possibili simboli della loro relazione, ricevendo in cambio diversi contributi.
L’azione performativa dell’imprimere e lasciare traccia è testimoniata sulla superficie della pasta sale e del lattice in mostra, poiché l’artista sceglie di non mostrare l’azione performativa, ma lasciare negli spazi di Voga i pezzi dell’armatura (ginocchiere e gomitiere) e il wearable display appeso al muro.
Appunti sulla mostra
in dialogo con Tanja Hamester
I
Gesture objects.
Parto con una definizione di quello che intendo per gesture objects. Per me sono una strategia che mi permette di lavorare in ogni luogo in modalità site specific. Raccolgo oggetti per strada che possono essere elementi vegetali, storie o citazioni che prendo da un libro, che poi assemblo anche in oggetto-scultura o collage. L’unica costante è che saranno per me “improntabili” e connessi in qualche modo, rappresentando il posto e la relazione con il luogo.
Lasciare l’impronta di questi oggetti per me significa ri-attivarli attraverso alcuni gesti. Mi sono ispirata alle pratiche della danza di Pina Bausch che inseriva interi concetti filosofici nei gesti e nei movimenti. La mia performance è una narrazione, come si relazionano gli oggetti e dove inserisco il tema del femminismo.
Questa è la prima volta che non scelgo io gli oggetti. Venendo a Bari ho trovato una struttura sociale stimolante e una connessione emotiva e di vero scambio tra persone. Ho pensato così di chiedere a 5 artisti locali di darmi un oggetto che rappresentasse la nostra relazione o relazione al luogo, molto libera.
II
La pasta.
Anche la scelta del materiale è importante. Non ho scelto l’argilla, ma la pasta sale un composto che si espande e si allarga, per questo interessante da usare, perché l’impronta cambia, perché ha una sua vita, offre uno scambio, mi piace per questa reattività.
La pasta sale mi ritornava come metafora del lavoro riproduttivo e di cura non pagato alle donne, ma anche nell’immagine delle donne che impastano insieme (come le donne a Bari vecchia). Quello è un momento – e la storia ce lo conferma - che diventa occasione per incontrarsi, confrontarsi e di empowerment. Anche il workshop è stata una strategia per produrre una grande quantità di massa che doveva servirmi per la mostra, ma attraverso il workshop e la condivisione di un ‘capitale culturale condiviso’ con le persone, rileggendo alcuni pezzi di Silvia Federici e tornando sul lavoro riproduttivo-collettivo.
Mentre impastavamo abbiamo tutte pensato e condiviso un momento di empowerment: situazioni in cui ci siamo sentite discriminate, soppresse o uscite da sole, e quindi cercare di ribellarsi da ciò che è stato scritto dalla società e della storia.
III
I pugni.
Considero il pugno nell’immagine delle dita che si uniscono in qualcosa che risulta più forte: la mano è meno forte rispetto il pugno. Ovviamente porta con sé una forte simbologia che fa riferimento ai Black Panther, il movimento degli operai e quello femminista.
I pugni sono come dei ritratti e fungono da documentazione di chi ha partecipato al workshop. Il pugno può togliere l’idea del genere e dell’età, rimane anonimo. L’impronta delle dita invece è una cosa molto personale, privata, ma la pasta sale non ti lascia un’impronta perfetta perché cambia (quindi sei in salvo!).
Con molta cura e intelligenza emotiva, mi piace dare spazio alle persone che coinvolgo e non metterle in scena: le loro storie diventano un archivio di potere.
Quello che rimane non è il pugno ma è il negativo, lo spazio vuoto dentro il pugno, ciò che stringi: è violento nel senso della rivoluzione che decidi - per rappresentare una scelta libera.
Gli oggetti performati.
Volevo indossare questi oggetti per la performance, così ho iniziato ad immaginarmi un display: i ragazzi di Voga mi hanno parlato degli ‘Abiti mentali’ di Franca Maranò (artista barese), così con la designer Elvira Di Serio abbiamo realizzato uno studio - una collezione di immagini – per immaginarci un wearable display.
Ho ricordato mia nonna e le forbici che lei aveva sempre nel grembiule per ogni evenienza - come una divisa pronta per il lavoro con tutti gli attrezzi necessari. Abbiamo realizzato così un gilet che si lega nelle sue parti grazie ad alcune zip: un trittico – di tre parti – che raccoglie gli oggetti in alcune tasche trasparenti a cui si possono aggiungere altri oggetti e attraverso le cerniere altri pezzi, anche qui fungendo d’archivio.
BIO:
Tanja Hamester ha studiato presso l’Akademie der Bildenden Künste München, dove ha conseguito un M.A. in Arte e Mediazione e uno in Arti Contemporanee ed Educazione Artistica. Ha studiato Filologia Tedesca presso l’Università Ludwig Maximilian di Monaco con un focus sulla letteratura e l’iconografia medievale. Ha ricevuto diverse borse di studio, tra cui una borsa di studio DAAD per l’istruzione e la formazione all’estero a Roma e una post-laurea DAAD a Palermo, una borsa di viaggio della Fondazione Marschalk-von-Ostheim e la borsa di studio d’arte del distretto dell’Alta Baviera. Fa parte del collettivo di artisti Room to Bloom, una piattaforma femminista per narrazioni ecologiche e postcoloniali dell’Europa (co-fondata dal programma Creative Europe dell’UE.
VOGA
Attraverso un programma di mostre, workshop e residenze, VOGA intende creare uno spazio accessibile ed inclusivo, che si concretizzi in occasioni pubbliche di incontro, confronto e dialogo nella città di Bari.
Partendo dalla posizione geografica di quest’ultima, VOGA si propone di tracciare una serie di rotte tra i paesi Mediterranei, creando alleanze trasversali basate sullo scambio tra artisti locali ed internazionali.
Così, VOGA punta a stimolare processi di apprendimento interculturale che favoriscano non solo lo sviluppo di nuove sinergie ma anche la valorizzazione delle diversità già presenti sul territorio pugliese.