“Perfino giocare a  ping-pong è il pretesto per indagare un possibile realismo magico: mi interessa trovare nelle azioni quotidiane dei significati e connessioni che rimandano a una realtà simbolica.”

Come ti sei avvicinata al mondo dell’arte e della fotografia?

Ho avuto la fortuna di nascere in un ambiente artistico: mia madre è un’insegnante di musica e mio padre ha sempre disegnato, dipinto, suonato e fotografato. Mio fratello è un appassionato di fantasy e videogiochi. In questo mix incredibile c’ero io. Da piccola sceglievo a caso un volume dalla libreria e rimanevo a fissare per ore dipinti di nudi classici con un sentimento di piacere proibito. Fare arte è stato naturale, così come la musica, fondamentale nella mia vita. Non è un caso se i titoli delle mie foto sono spesso titoli di brani o testi di canzoni che mi rimandano a una precisa atmosfera.

Ho iniziato a prendere confidenza con la macchina fotografica solo dopo l’università quando ho avuto l’occasione di lavorare per la galleria Carla Sozzani come fotografa interna. Successivamente fuori dall’ambito strettamente lavorativo, ho collaborato con realtà culturali indipendenti come Macao, Standards e Buka. Qui fotografavo i concerti e live, entravo nei backstage ed avevo la fortuna di stare vicino ad artisti che avevo sempre considerato delle divinità.

Quali sono i fotografi ed artisti che hanno influenzato il tuo immaginario?

L’artista che mi ha fatto innamorare dell’arte contemporanea è Felipe Gonzales Torres con l’opera Untitled (Portrait of Ross in L.A.) dove una montagna di caramelle colorate ammassate al muro della galleria mi invitava ad avvicinarsi. Ricordo che ancora con la carta della caramella stretta tra le mani appena raccolta dal mucchio, sono rimasta folgorata dalla piccola didascalia che spiegava come il peso totale delle caramelle 80kg, era il peso del compagno di Torres al momento della morte a causa dell’AIDS. In quel momento l’amore era materialmente dentro la mia bocca, dolciastro e appiccicoso.

Anche il cinema ha un ruolo fondamentale nel mio lavoro, in particolare cito due dei miei film preferiti: feticcio: A snake of June di Shin’ya Tsukamoto con le sue immagini perfette, il blu e l’acqua presenti in tutto il film, il gioco psicologico tra la protagonista e il fotografo; e Dune del 1984 diretto da David Lynch. Altre fonte di ispirazioni che hanno influenzato le mie immagini provengono dalla pittura di Domenico Gnoli: il suo essere “pittore classico” in una forma di astrazione della realtà, e dalla musica, le sonorità dei Cocteau Twins. Nella fotografia l’elenco è sterminato ma sicuramente la fotografia giapponese è il mio riferimento visivo fondamentale: dai maestri Kenro Izu, Nobuyoshi Araki e Rinko Kawauchi, alle ultime tendenze Maise Cousins, Juno Calypso e il conturbante Torbjorn Rodland.

Sara Scanderebech - MAGIA, Alla Carta n.17, 2021
Sara Scanderebech - MAGIA, Alla Carta n.17, 2021
Sara Scanderebech - Iceblink Luck, 2020
Sara Scanderebech - Iceblink Luck, 2020
Cosa ti spinge verso un nuovo lavoro? Cosa ti interessa indagare attraverso la tua ricerca come fotografa ed artista visiva?

Affettare le verdure, lavarsi i capelli, accarezzare il corpo dell’altro e perfino giocare a  ping-pong sono il pretesto per raccontare un possibile realismo magico: mi interessa trovare nelle azioni quotidiane dei significati e connessioni che rimandano a una realtà simbolica. La realtà senza magia in cui spesso siamo immersi non mi interessa.

Mi interessa indagare l’impalpabile relazione tra le cose, tra le persone e tra le cose e persone; scoprire il mondo altro: gocce di liquido su una superficie di marmo. Un microcosmo di riflessi e di forme organiche che diventano per un attimo elementi di un altro mondo, creando un’interferenza nella realtà materiale, fintamente ordinata e conosciuta.

Spesso non mi interessa in sé il soggetto che sto fotografando, potrebbe essere animato inanimato, brutto o bello, non ha nessuna importanza, cerco solo di coglierne l’ambiguità e le emozioni che mi trasmette. Qualcosa di estremamente familiare e contemporaneamente alieno un po’ come quando ti guardi attentamente le dita dei piedi.

Sara Scanderebech - Le planete sauvage, 2020
Sara Scanderebech - Le planete sauvage, 2020
Sara Scanderebech - Le planete sauvage, 2020
Sara Scanderebech - Le planete sauvage, 2020
Bagni e Le planete sauvage sono i tuoi ultimi progetti che rivelano un’altra visione del Salento, distante  dall’immaginario comune di stereotipi visivi commerciali e turistici. Come percepisci la realtà della tua terra d’origine? Quali suggestioni ti ha trasmesso così da dare vita a questi due lavori?

Sono due progetti fotografici nati da un re-innamoramento con la mia terra d’origine. Infatti solo recentemente sono riuscita a comprenderne meglio le potenzialità e quasi mi commuovo quando sento che qualcosa si muove, soprattutto artisticamente. In entrambi non ho voluto che si percepisca chiaramente un riferimento geografico ma piuttosto mi interessava trasmettere delle sensazioni che inondano i cinque sensi e che io stessa per la prima volta, dopo tanto tempo, sono riuscita a interiorizzare e sentire.

Qui è tutto fisico e carnale: lo scorrere lento ed immobile del tempo, la natura è aggressiva fa quasi paura. La terra rossa spaccata, le pietre taglienti, le spine dei fichi d’india, delle agavi, delle piante di asparago, le spine dei ricci. Tutto ti penetra e se sei fortunato ti rimane un pezzettino di lei dentro di te per sempre. 

Ho cercato di raccontare queste sensazioni in La planète sauvage, scattato nel mio giardino e a pochi metri più in là della mia casa a Torre Suda. Qui mi interessa che si percepisca il luogo come un pianeta alieno: un luogo che ho sempre avuto sotto agli occhi e che, eppure, nasconde un microcosmo così complesso che vive e si trasforma indipendentemente dall’azione di noi umani con le sue regole, le sue architetture, le sue gerarchie. 

Anche in Bagni la localizzazione geografica non è importante. Sono le relazioni intime quasi universali che mi interessano e i dettagli: la sensazione di essere a pochi passi dal mare senza mai vederlo (gli squarci tra gli scogli, l’onda dei capelli, l’ombra del bicchiere, un sasso). Tutto è un’unica materia. Dettagli dello stesso disegno.

Quali differenze noti tra i tuoi esordi e oggi?

Durante i miei studi artistici odiavo la fotografia. Non la concepivo come una vera forma d’arte, ma solo una mera tecnica di rappresentazione della realtà. Mi interessava dipingere ed ero attratta dalle forme installative delle opere d’arte. Un po’ come nei videogiochi: perché giocare a un simulatore di calcio, quando potresti  essere una sciamana che comanda dei vulcani, lancia palle di fuoco e guida la sua tribù attraverso 25 pianeti di un sistema planetario mai visto? (a chi indovina il videogioco offro un bicchiere di primitivo) 

Successivamente ho capito che la fotografia è anche un modo per creare immagini e immaginari, quando ho cominciato a paragonarla alla pittura e al disegno ho trovato la mia chiave. Ho fatto delle scelte, ho dovuto abbandonare tantissime strade che mi piacciono ancora, ma credo che le energie vadano focalizzate su un unico obiettivo per riuscirci veramente.

Sara Scanderebech - Abstract plants, 2020
Sara Scanderebech - Abstract plants, 2020 - courtesy the artist
Sara Scanderebech - Ping pong stories, 2020
Sara Scanderebech - Ping pong stories, 2020 - courtesy the artist
Sara Scanderebech - Microcosmos, 2020
Sara Scanderebech - Microcosmos, 2020 - courtesy the artist
Il medium della fotografia è legato indissolubilmente a due aspetti: quello estetico e quello sociologico-antropologico. Come vivono queste due componenti nella tua ricerca?

Sia nei miei progetti personali sia nei lavori editoriali di moda, le mie ricerche estetiche sono molto correlate con gli aspetti sociologici ed antropologici. Questi aspetti non prevalgono l'uno sull’altro ma sono collegati e penso che attraverso le mie foto cerco di raccontare in modo accattivante e pop qualcosa che in realtà non è tanto affascinante o interessante ad un primo sguardo.

La fotografia di moda infatti mi da questa possibilità di ricerca dove cerco di scegliere persone che conosco come modelli, così da avere la possibilità di andare a rintracciare quel  rapporto persone-oggetti di cui parlavo prima. Il nostro sistema visivo non è l’unico modo con cui possiamo vedere e per questo cerco di portare avanti attraverso la fotografia, un’indagine sugli infiniti livelli e connessioni tra immagini e significati del contemporaneo.

Quali sono i tuoi piani futuri? Al momento stai lavorando a nuovi progetti/lavori?

Al momento oltre a collaborare con artisti e stylist che stimo molto per diversi progetti nell’ambito della moda, sto curando la comunicazione e la sezione del bookshop di Paradise il concept store di Marsèll a Milano. Per quanto riguarda i progetti personali sto lavorando al momento su una serie di scatti sul tema dell’auto-piacere, idea nata dopo la partecipazione alla mostra Savage curata da Jacopo Miliani da Otto Zoo. Mi piacerebbe nel futuro insegnare vorrei analizzare e sviluppare l’utilizzo dei social media nel mondo dell’arte.

Sara Scanderebech - Marsell, digital campaign, 2020
Sara Scanderebech - Marsell, digital campaign, 2020 - courtesy the artist
Sara Scanderebech - MAGIA, Alla Carta n.17, 2021
Sara Scanderebech - MAGIA, Alla Carta n.17, 2021 - courtesy the artist
testo di 
Salgemma

Sara Scanderebech nasce a Nardò nel Salento. Si trasferisce a Milano per frequentare l’Accademia di Belle Arti di Brera. Dopo la laurea in Arti Visive lavora come fotografa per la Galleria Carla Sozzani. Attualmente è attiva come curatrice digitale e creatrice di contenuti per un marchio di moda. Nel 2019 è stata fotografa ufficiale del Padiglione tedesco durante la Biennale di Venezia ed ha esposto alla Galleria Otto Zoo di Milano nella collettiva Savage.
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