Fino al 2020, non avevo mai sentito parlare di Patience Gray. Vivevo in Olanda e mi occupavo di tutt’altro, ma sentivo che era arrivato il momento di cambiare. Avevo iniziato a pensare a un viaggio nel Mediterraneo per una ricerca sul grano, addirittura con l’idea di cercare una barca a vela con cui farlo. Poi è arrivato il Covid e tutto si è fermato.

Non provengo da una tradizione culinaria familiare: le mie nonne erano entrambe orfane e non hanno tramandato molte ricette o usanze di cucina. Leggendo Patience Gray, ho sentito di aver trovato qualcosa che mi mancava. Non solo per il suo approccio morale e politico al cibo, ma anche perché il suo libro è un vero e proprio manuale di vita. Non è un semplice ricettario: intreccia storie, esperienze fisiche, ricordi, trasformando ogni piatto in un veicolo di memoria. Ricordo a memoria alcune pagine, non tanto per la ricetta in sé, ma per il racconto che la accompagna.

Dopo aver letto Honey from a Weed, ho subito sentito il bisogno di far conoscere Patience Gray al pubblico italiano, poiché in tutti questi anni il libro non è mai stato tradotto in altre lingue (uscì nel 1986). Così è nato un progetto su Instagram, senza sapere come avrebbe cambiato la mia vita. Ho iniziato a prendere decisioni con la sensazione che Patience le avrebbe approvate.

Il tuo lavoro si intreccia spesso con il concetto di decolonizzazione, dall'architettura alla filiera del grano. Come si inserisce Madame Cadec in questo discorso?

La decolonialità non è solo un concetto teorico, è una pratica quotidiana. Il sistema alimentare moderno ci ha allontanati dalla sostanza delle cose, dalla memoria storica e dei luoghi, e dal valore del cibo come nutrimento in relazione a chi siamo. Con il nostro modo di alimentarsi oggi, il cibo è diventato un bene di consumo, un capriccio preparato dalle mani di altri o da un elettrodomestico “che fa tutto da solo”. In un contesto contemporaneo in cui il cibo diventa porno, le ricette si trasformano in reels di 30 secondi, gli/le chef diventano star mondiali e le cucine di casa si riempiono di tecnologia, l'approccio di Madame Cadec ispirato a quello della “cuoca neolitica” Patience Gray alla vita e al cibo, cerca di essere radicato, reale e soprattutto "liberatorio". Uno strumento per aprire il varco verso la demodernità in cucina. 

1971 Patience Gray© Francesco Radino
1971 Patience Gray © Francesco Radino

La residenza a Casa delle Agriculture in Salento ha rappresentato un momento cruciale per Madame Cadec. Cosa ha significato per te lavorare in Puglia e quali sono stati i principali spunti emersi?

Trascorrere del tempo in Puglia, soprattutto nei luoghi legati alla vita di Patience Gray, è stata un’esperienza fondamentale. Casa delle Agricolture è diventata un punto di connessione tra la mia ricerca e il territorio. Il lavoro fatto lì è stato il primo evento che mi ha permesso di restituire qualcosa di concreto, vicino alle tappe del suo viaggio. Abbiamo intrecciato storie, fatto ricerca, esplorato le radici della cultura alimentare locale. Come l’incontro coi “mugnuli”, un broccolo tutto salentino che non avevo mai visto prima. È stato un modo per portare avanti il suo insegnamento, non solo attraverso la memoria, ma anche nella pratica quotidiana, nel rapporto con la terra e con le persone.

E in questo processo, ho visto come i percorsi delle nostre vite si intrecciano in modo inaspettato. Ho conosciuto Casa delle Agricolture anni fa, inizialmente per via della mia ricerca sul grano e lavoro con una comunità di agricoltori di cereali, ma quando ho deciso di dedicarmi a Patience e alla sua eredità, non solo in termini di ricerca, ma anche di memoria collettiva, è sembrato il luogo ideale e penso che certamente sarebbe stato un posto molto apprezzato e sostenuto da Patience.  

    Patience Gray ha vissuto per decenni in Salento, sviluppando un rapporto intimo con il territorio e la sua cucina. Come hai cercato di ripercorrere la sua esperienza e cosa hai scoperto di sorprendente?

    Il periodo di residenza  è stato fondamentale, e mi ha confermato quanto sia essenziale produrre cibo in modo consapevole. Quando il cibo arriva nel piatto, porta con sé un’energia che si percepisce. Durante le cene a Casa delle Agricolture, e molto più recentemente a Milano, ho ricevuto sempre questo tipo di riscontro: c’era qualcosa di vivo nel cibo e nell’atmosfera che si creava attorno ad esso.

    Patience Gray esprimeva bene questo approccio, per lei la cucina non è performance, ma vita. Il valore del cibo sta nella sua capacità di nutrire, non nell’apparenza e credeva nel valore terapeutico dei gesti manuali in cucina. In un mondo frenetico, pestare il cibo invece di frullarlo ci riconnette con noi stessə e con la materia di cui siamo fattə.

      Il cibo che preparo non è sofisticato, non crea barriere, non ha bisogno di virtuosismi. In un mondo dove il cibo spesso è legato a un’estetica distante dalla sua essenza, è fondamentale tornare alla sua radice di sostanza.

      La qualità degli ingredienti è la chiave, ma per capirla bisogna sapere come arrivano a noi. In ogni luogo, la prima cosa che faccio è incontrare i produttori, i pescatori, conoscere le persone, guardarle negli occhi e parlare del loro lavoro. L’ho fatto in Puglia, in Sicilia, in tutti i mercati visitati  durante il nostro viaggio in barca nel Mediterraneo. Il contatto diretto è essenziale. Per me, il cibo non è solo un prodotto da consumare, ma un atto di connessione tra le persone, una riscoperta della memoria alimentare.

      “Nella mia esperienza è l'uomo di campagna il vero gourmet e per una buona ragione: è lui che ha coltivato, allevato, cacciato o pescato la materia prima, lui stesso ha fatto il vino. La preoccupazione di sua moglie è rendere giustizia alle sue fatiche e portare il risultato in tavola in maniera trionfale. In tutto ciò si ritrova un elemento emotivo. Forse proprio questo tipo di approccio antico sta iniziando nuovamente ad essere d’ispirazione per chi cucina in situazioni urbane più complesse. Dal mio punto di vista, non furono necessariamente i cuochi dei prelati o dei principi ad inventare le ricette. Sono le persone di campagna e i pescatori ad averle ideate, i grandi chef le hanno rifinite e messe per iscritto. Nei paesi latini, per via di un innato conservatorismo, la tradizione è viva e da essa possiamo imparare, il ché significa imparare da persone che non hanno mai letto un libro.”

      da Patience Gray, Honey from a Weed , Prospect Books, 1986, London

      MadameCadec
      Foto di Laura Fiorio - MadameCadec, Tre Pasti, Casa Delle Agriculture, 2024.

      Hai organizzato una serie di eventi pubblici durante la tua permanenza in Puglia. Come hai strutturato questi incontri e quale è stata la reazione delle persone coinvolte?

      Il progetto "Tre pasti" nasce dalla scelta di creare gruppi di ricette che possono stare bene insieme, sulla stessa tavola, non menù, perché Patience non avrebbe mai usato quella parola. Ogni pasto racconta qualcosa di diverso, proprio come nell’antologia che sto traducendo da Honey from a Weed.

      Il primo pasto è stato il pranzo per il compleanno di Patience, il 31 ottobre, insieme a persone amiche  legate a lei. È stato un momento emotivo e speciale, in cui i piatti hanno assunto un significato ancora più profondo.

        Le altre due cene sono state con un pubblico più ampio, composto in gran parte da persone che non conoscevano Patience. Non c’era un menù definito, perché non si può prevedere la disponibilità della natura. I piatti sono stati preparati con gli ingredienti che la stagione offriva: formaggi freschi, verdure, pesce, legumi:  un omaggio al lavoro della terra, a ciò che la natura ci dà nella stagione. E le persone sono state sorprese dalla spontaneità e dalla convivialità che si è creata. La reazione comune è stata una sensazione di calore e connessione, che ha reso ogni cena un’esperienza unica.

        Il viaggio è un elemento ricorrente nella tua pratica: hai vissuto e lavorato in vari paesi, e attualmente abiti su una barca a vela. Come influisce questa mobilità sulla tua ricerca e sul tuo modo di intendere il cibo?

        Uno degli aspetti che mi ha influenzata di più è stato il nomadismo. Ho sempre viaggiato, fin da giovane, ma non l’ho mai visto solo come un hobby, bensì come un modo di vivere e imparare. Nel 2021, ho acquistato una barca e ho iniziato a viverci, un'esperienza che mi ha avvicinato ancora di più al modello di vita di Patience Gray. Vivere in modo così essenziale, senza acqua corrente né elettricità, mi ha dato forza nelle scelte radicali che ho fatto. Ho vissuto in vari posti, dall'Adriatico al Tirreno, passando per Barcellona e il Salento, dove ho visitato più volte Masseria Spigolizzi, il luogo dove Patience ha vissuto per 35 anni. Il viaggio per me non è solo muoversi da un luogo all'altro, ma una riflessione continua.

        MadameCadec
        Foto di Laura Fiorio - MadameCadec, Tre Pasti, Casa Delle Agriculture, 2024.

        I progetti come Comunità Grano Alto e il festival FORNI & FORNAI•E sono parte integrante della tua ricerca sul cibo e sul pane. Come si intrecciano con la filosofia di Madame Cadec?

        Oltre alla traduzione di Honey from a Weed, ci sono altri testi o autori che ritieni fondamentali per comprendere il Mediterraneo attraverso il cibo?

        Negli ultimi cinque anni, il mio approccio al Mediterraneo è cambiato profondamente, soprattutto grazie alla riflessione sul concetto di decolonialità. Se cinque anni fa avessi risposto, avrei citato autori come Fernand Braudel, storici e geografi che hanno offerto una visione che oggi definiamo coloniale del Mediterraneo. È importante cercare riferimenti che aiutino a decostruire quella visione idealizzata. Il breviario del Mediterraneo di Predrag Matvejevic ne è un esempio, ma anche Aglio, Basilico, Menta di Jean-Claude Izzo, un breve saggio postumo che racconta il Mediterraneo visto da Marsiglia come unione di sponde che si parlano e non come cesura. Un altro testo fondamentale per chi vuole capire questo insieme di luoghi attraverso il cibo è Mediterranean Seafood di Alan Davidson, che esplora la biodiversità marina del Mediterraneo, traducendo i nomi dei pesci in tutte le lingue che si affacciano su questo piccolo mare, a partire dalla sua esperienza di vita in Tunisia. Inoltre, Josep Pla, con Ciò che abbiamo mangiato, offre una riflessione sulla cucina mediterranea in Spagna e Catalogna, ricordandoci che la cucina è anche un mezzo per comprendere chi siamo. Questi libri mi hanno aiutato a scoprire la ricchezza culturale del Mediterraneo, ma anche le sue contraddizioni, tra bellezza e sfruttamento.

        MadameCadec
        Foto di Laura Fiorio - MadameCadec, Tre Pasti, Casa Delle Agriculture, 2024.
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        Foto di Laura Fiorio - MadameCadec, Tre Pasti, Casa Delle Agriculture, 2024.

        Sara Pellegrini è una ricercatrice e designer dalle tante identità. Negli ultimi 15 anni ha lavorato come ricercatrice indipendentre, direttrice creativa e project manager per collettivi artistici, organismi internazionali no-profit, aziende private, case editrici e riviste in Europa e Medio Oriente. Attualmente risiede in Toscana, Italia, a bordo di una piccola barca a vela con cui ha compiuto metà giro del Mediterraneo.
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